
[Articolo del giugno 2017]
Si legge a più riprese della fine dell’utopia di internet. L’ottimo Fabio Chiusi scrive su L’Espresso un articolo, come sempre estremamente esaustivo e informato che dice:
L’idea di una rete che doveva migliorare l’umanità e favorire l’uguaglianza è in crisi profonda. E proprio coloro che per primi hanno creduto in questa rivoluzione ora sono diventati scettici.
L’articolo è qui.
Mi sembra che il dibattito stia prendendo una piega poco produttiva e che, appunto, tenda a buttare il bambino con l’acqua sporca.
Faccio alcune considerazioni che credo possano contribuire alla discussione, a partire da un fatto: internet è uno strumento di massa da un tempo brevissimo, con tutto quello che questo comporta.
Ogni strumento chiede un tempo ragionevole per potersi definire maturo, internet lo è dal punto di vista tecnologico, non lo è dal punto di vista della fruizione.
Il secondo punto, assolutamente nodale trovo sia la questione dell’eccessiva aspettativa. Ogni rivoluzione ha fallito, almeno finora, pensare che ci potesse essere una rivoluzione di internet mi pare almeno buffo. Allo stesso modo sono convinto che le persone rimangano persone anche su internet. Viviamo una stagione politica di grande decadenza, vediamo un approccio quanto meno censurabile alla cosa pubblica ma, per qualche buffo motivo, ci saremmo aspettati che le medesime persone su internet sarebbero state diverse e migliori.
Internet è un mezzo, niente di più e niente di meno, un grande amplificatore che altro non fa se non rendere più rapidi e straordinariamente efficaci collegamenti e forme di comunicazione. Si riempie di persone che sono quello che sono, né meglio né peggio, con tutte le storture che questo comporta.
Non credo abbia senso la retorica della sconfitta, non credo abbia senso mi ritrovo molto nella considerazione di Weinberger (sempre citato da Chiusi):
è «vitale tenere a mente quanto Internet abbia simultaneamente trasformato i sistemi e le istituzioni esistenti in meglioe liberato i migliori impulsi dell’umanità». Certo, non solo quelli, ma «dimenticarli ora rischia di portarci a reagire in maniera sproporzionata e perdere ciò che abbiamo guadagnato; l’equivalente scrive via mail, «di serrare le labbra perché mentono troppo spesso». Il riferimento, nemmeno troppo velato, è alle misure repressive immaginate dai governi di tutto il mondo democratico in risposta a “fake news” ed estremismi: «Ciò che di buono e cattivo ha prodotto Internet dipende strettamente dalla sua architettura. Se la distruggeremo per prevenire i danni di cui leggiamo incessantemente», dal cyberbullismo al terrorismo, «perderemo anche tutto ciò che di profondamente buono e umano c’è in Internet». Indebolire la crittografia per legge, criminalizzare il falso, trasformare i colossi web in sceriffi, in altre parole, sarà pure una presa d’atto del fallimento di un’utopia, ma rischia di produrre il suo contrario.
Forse immaginare che la capacità di produrre molti click sia sufficiente ad avere una visione è un po’ ottimistico, forse sarebbe opportuno tentare di fondare una riflessione che esula dalla questione tecnologica e dall’engagement e che provi ad approfondire il tema in modo decisamente trasversale.
Internet non è una questione tecnologica, supporre che le fake news possano essere combattute con un algoritmo è almeno imprudente.
Internet non è il paradiso ma uno strumento credo ormai ineludibile, con cui fare i conti che deve essere governato, a cui guardare in modo meno millenaristico senza cercare di trovarci soluzioni. Lo strabismo della discussione credo porti solo a distorsioni.