Pablito mundial

Questa cosa del fulbar (come diceva mio nonno) non mi è mai entrata nel cuore. Mi ricordo persino quando lui, prima di ammalarsi, mi veniva a prendere la domenica pomeriggio e mi portava, sulla canna della bicicletta, a vedere il Vigevano allo stadio. Ero piccolissimo, poteva essere il 1973, forse il 1974.

Mi ricordo (ma si sa i ricordi d’infanzia) un pomeriggio brumoso, autunnale. Di quei pomeriggi d’autunno che solo nella pianura padana. Un ricordo in bianco e nero, mentre la maglia dei “ragazzi” era biancazzurra.

Non mi è mai entrato nel cuore, ci ho provato forte con il Milan nei primi anni ’70.

C’era Albertosi, Rivera, quella generazione lì. Beh poi Albertosi lo hanno arrestato per il calcio scommesse. Non mi sembrava possibile. E mi è passata. A scuola tutti parlavano di calcio e io no, non ne sapevo mezza. E poi da adulto il lunedì mattina al bar, una classe avanzata di una lingua a ma totalmente sconosciuta.

Però c’è stato un momento in cui il calcio è diventato parte di me, e quindi io sono diventato parte di un tutto. E, ovviamente, è stato nel 1982, quando nonostante tutto l’Italia vinse i mondiali.
Un “nonostante tutto” grande come una casa, si veniva da un sacco di polemiche (che non ricordo perché appunto fu una meteora) e fu una strada tutta in salita.

Mi ricordo il Camerun (ho passato l’estate successiva sulla spiaggia di Varazze a fingere di essere ‘Nkono, il portierone degli africani – questo la dice lunga sulla mia capacità di palleggiatore, finivo sempre in porta!).
Mi ricordo il Brasile (Eder che sparava le cannonate da metà campo), la Francia e poi la Germania. Erano pomeriggi a guardare le partite su una tv piccina in bianco e nero, chiuso nella stanza della casa che i miei avevano affittato a Varazze.
Mi ricordo la sera della finale, quando i ragazzi che lavoravano all’hotel vicino stavano addobbando la loro A112 (rigorosamente carta da zucchero, i miei coetanei capiranno) e la addobbavano con la carta crespa e lo scotch da pacchi. Una bandiera italiana, bianco, rosso e verde.
Mi ricordo mia madre che chiese loro cosa avrebbero fatto in caso di sconfitta e i tre (dopo essersi opportunamente grattati) dichiararono che avrebbero bruciato la macchina.

E poi la sera della finale, il silenzio, gli autobus vuoti.
Nessuno in giro.
Una nazione ferma, appesa alla tv.
E il boato per il rigore sbagliato da Cabrini.
E poi il boato per il goal di Pablito (era Paolo Rossi, ma Pablito era diventato il suo soprannome). E Tardelli, e Altobelli. Fino al bel goal di Breitner.

Una serata pazzesca, avevo 12 anni, non uscii a festeggiare. L’indomani non trovai la Gazzetta (mai comprata la gazzetta in vita mia se non per il nonno), ma Tuttosport (che bello sarebbe averlo ora) con “Campioni del mondo” a caratteri cubitali. Era un mondo tutto diverso, è stato un periodo magico oltremodo. Sono stato un po’ tifoso anche io. Solo un po’.

Beh, stanotte è morto Paolo Rossi, il principale artefice di quella cavalcata. Uno che costava già tantissimo negli anni ’70 mi pare di ricordare 2 miliardi per passare dal Lanerossi Vicenza al Milan o alla Juve. Io non lo so il calcio. E me lo aspetto che mi correggano quelli che sanno il calcio.

Stanotte è morto Paolo Rossi, quello che nella mia fantasia di bambino è stato l’eroe di una stagione. Quello che ha fatto esultare Pertini, il presidente buono. Quello che era stato chiamato da Bearzot, che era l’allenatore magico, con la pipa e il mento.
Paolo Rossi che ha rappresentato un momento formidabile per la mia generazione, perché si sa, quelli sì che erano tempi! 😉